di Rosa Anna Savoia
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L’Ordine francescano fu fondato nei primi anni del XIII secolo da san Francesco d’Assisi, la cui Regola fu approvata dal pontefice Onorio III nel 1223. Nel corso dei secoli, l’Ordine, nella continua ricerca di conservare lo spirito del suo fondatore, ha originato, attraverso diverse interpretazioni della Regola, varie riforme interne. Agli inizi del Cinquecento, i fermenti religiosi di rinnovamento che il Concilio di Trento andava sucitando
«trovarono ampia condivisione nell’Ordine francescano, da sempre incline a raccogliere gli aneliti di riforma dei costumi e della vita serpeggianti nella Chiesa. In seno all’Osservanza francescana si avvertiva prepotente l’istanza di una rinnovata fedeltà alla Regola e al primigenio modello di vita incarnato da Francesco d’Assisi.
Questo bisogno fu raccolto da quel movimento, inizialmente denominato Riforma cappuccina, che ebbe l’intento di seguire san Francesco nell’altissima povertà, nella evangelizzazione itinerante e finanche nella stessa maniera di vestire: nessuna pur lontana intenzione di fondare un nuovo Ordine, ma solo la volontà di vivere perfettamente la Regola, indusse, infatti, fra Matteo da Bascio, agli inizi del 1525, a chiedere vivae vocis oraculo al papa Clemente VII, di poter realizzare il suo propositum vitae nell’itineranza francescana.
Sulla scia di Matteo, i fratelli Ludovico e Raffaele da Fossombrone chiesero al Ministro provinciale di “ponerli in qualche loco poverino con frati che habbino tal volontà (…) e quivi insieme riformatamente vivere” (…) la paura di nuove scissioni consigliò i Superiori dei Frati Osservanti a non acconsentire a questa richiesta condivisa da per rifugiarsi insieme al fratello Raffaele presso i Camaldolesi di Massaccio nelle Marche, condividendone la vita eremitica per alcuni mesi. Il 18 maggio 1526 il Papa autorizzò i 3 frati a vivere indipendentemente dai propri Superiori dell’Osservanza nell’eremo di Arcofiato a 3 Km da Camerino».
Il 3 luglio 1528, il riconoscimento solenne di questa nuova famiglia fu sancito da Clemente VII con la bolla Religionis zelus («vi concediamo di menar vita heremitica et portare l’habito col cappuccio (...) et portare la barba (...) et habitare et menare vita austera ...»), concessa grazie all’interessamento della duchessa Caterina Cybo, nipote del papa.
Appena cinque anni dopo, i cappuccini arrivarono in Puglia inviati da p. Ludovico da Fossombrone, vicario generale, e nel 1533 fondarono il primo convento a Rugge, per opera di p. Tullio da Potenza, ex conventuale, considerato il fondatore della Provincia di Puglia, detta anche di S. Girolamo. Questa fu tra le prime dodici fondate subito dopo la nascita del nuovo Ordine ecomprendeva le circoscrizioni civili di Terra di Bari, Terra d’Otranto e Basilicata. Essendo molto difficoltoso governare un così vasto territorio, nel 1560 la Basilicata divenne provincia autonoma e le si assegnarono i cinque conventi esistenti nel suo territorio. Per le stesse ragioni, nel 1590, la rimanente Provincia di S. Girolamo fu divisa ulteriormente in due: la Provincia di S. Maria di Leuca o di Lecce o di Otranto o Santa Maria in finibus terrae e la Provincia di Bari o S. Nicolò.
Tavola dei conventi dei frati minori cappuccini della Provincia Hidruntina, 1649
La prima comprendeva i conventi di: Brindisi (1566), Casalnuovo – Manduria (1575), Casarano (1582), Castellaneta (1572), Ceglie Messapica (1566), Copertino (1592), Corigliano (1587), Francavilla (1560), Gallipoli (1584), Grottaglie (1546), Laterza (1537), Lecce (1570), Martina (1546), Massafra (1584), Matera (1560), Mesagne (1539), Nardò (1569), Ostuni (1586), Otranto (1594), Rugge (1533), Salve (1579), Sant’Elia (1575), San Pietro in Galatina (1544), Taranto (1534), Taranto Battendiero (1556) e Tricase (1578), cui si aggiunsero nel 1601 Galatone e nel 1600 Scorrano.
La seconda comprendeva i conventi di: Acquaviva (1589), Altamura (1563), Andria (1573), Bari (1556), Barletta (1554), Bitonto (1540), Conversano (1580), Gravina (1535), Modugno (1590), Molfetta (1540), Monopoli (1566), Montepeloso (1570), Noicattaro o Noia (1589), Putignano (1573), Spinazzola (1570), Terlizzi (1582), cui si aggiunsero quelli di Cisternino (1596), Corato (1594), Lavello (1591), Minervino (1593) Noci (1588), Palo (1594), Trani (1591), e Venosa (1591) nonché gli ospizi di Santeramo, Trinitapoli, Fasano, Locorotondo, Polignano, Bitritto, Alberobello, Toritto, Bitetto, Castellana e Capurso.
In pochi decenni, quindi, dal 1533 al 1600, i cappuccini fondarono in questo territorio ben 57 conventi. Le prime dimore si devono all’opera instancabile di due predicatori: il già nominato p. Tullio da Potenza, che fondò, oltre a quello di Rugge, anche i conventi di Potenza (1534), Taranto, Gravina, Laterza, Grottaglie e Mesagne, e p. Giacomo da Molfetta, che, passato dai minori osservanti tra i cappuccini subito dopo la riforma, fondò i conventi di Molfetta, Galatina, Grottaglie, Laterza, Bitonto, Barletta e Martina Franca.
In un primo periodo «le umilissime fondazioni furono dovute all’entusiasmo e alla pietà del popolo», mentre successivamente le richieste di fondazione partirono da vescovi, signori e università: il tutto, con «una frequenza impressionante: in media sorge più di un convento ogni due anni».
L’espansione della riforma cappuccina, subito dopo la sua approvazione, fu infatti di tale intensità da sembrare quasi prodigiosa; nel breve giro di un decennio, si diffuse in quasi tutte le regioni d’Italia. Si trattò di un’espansione che per tutto il Cinquecento e il Seicento non conobbe tregua, ma ebbe sempre un maggiore e nuovo incremento. Le richieste di avere nel proprio territorio una fraternità cappuccina, inviate da parte delle università ai capitoli delle singole province o ai superiori maggiori, erano così insistenti che non era possibile rifiutarle. Le accoglienze che le comunità locali facevano a questi religiosi erano quasi commoventi: per la collocazione della croce sul luogo scelto per costruire il convento e per la posa della prima pietra dell’edificio, il clero secolare e regolare, le autorità e il popolo in massa si portavano processionalmente sul posto per assistere alla cerimonia, ritenuta un evento di grande importanza per la vita della città o del paese.
Spesso erano gli stessi vescovi che chiedevano la presenza dei cappuccini nelle rispettive diocesi, e con loro molte volte partecipavano attivamente alla fondazione dei conventi i Capitoli della cattedrale o della collegiata, singoli ecclesiastici, arcipreti, abati, canonici. Nel quadro generale del rinnovamento dell’Europa cristiana, che sarà rilanciato dal concilio tridentino (1545 – 1563), si sentiva, infatti, il bisogno di immettere nel clero addetto alla cura religiosa dei fedeli uomini nuovi che proponessero un modo moderno di essere preti e costituissero uno stimolo pastorale sia per il clero secolare sia per quello regolare già presente nelle città. E i cappuccini di recente istituzione erano effettivamente “uomini nuovi e preti diversi”, che conducevano una vita austera, quasi eremitica, predicavano con uno stile fervoroso e irruente, concreto e popolare, socialmente efficace e travolgente; vivevano a fianco degli umili e degli emarginati condividendone le gioie e i dolori, curando, senza tener conto del pericolo cui si esponevano, gli appestati e i lebbrosi non solo nei lazzaretti, ma anche negli ospedali fino al punto da sembrare, all’inizio, un Ordine ospedaliero; organizzavano associazioni, come i Monti di Pietà o i Monti frumentari, per combattere i soprusi come l’usura, antico male dell’Italia meridionale. La loro condotta appariva insomma come una realizzazione integrale e totalitaria della vita evangelica instaurata dal Santo di Assisi. Non desta meraviglia, perciò, se la società del tempo subì presto l’incanto della vita cappuccina tanto che popolo e autorità venivano incontro, nelle forme più svariate, alle necessità quotidiane dei frati.
Quasi sempre la fondazione di un convento fu possibile grazie all’intervento dei signori del luogo o all’aiuto economico di persone facoltose, ma sempre con larga partecipazione dei fedeli.
Nella scelta del luogo per i nuovi insediamenti i frati erano particolarmente attenti alla distanza dal centro abitato per favorire la vita eremitica («Ordiniamo che i nostri luoghi non si piglino molto lontani dalle Città, Castelli e Ville, ne’ anco troppo vicini ...»), ma tenevano in considerazione anche la facilità di trovare mezzi per il sostentamento e la comodità negli spostamenti. Inoltre, poiché non era assolutamente loro consentito di dormire fuori del convento, quando la distanza tra un convento e l’altro non poteva essere percorsa nell’arco della giornata, stabilirono, per evitare il problema del pernottamento, di erigere alcuni conventi di raccordo, dislocati in punti strategici, che servissero da ospizio per i frati in transito.
Le prime dimore dei cappuccini erano abitazioni provvisorie: piccoli e poveri eremitori, chiesette abbandonate, grotte. I frequenti spostamenti, infatti, impedirono inizialmente fondazioni stabili e organizzate. «Volendo rivisitare un conventino cappuccino delle origini – scrive Mariano D’Alatri - dobbiamo accettare letteralmente prima di tutto la battuta dei primi francescani a madonna Povertà, riportata dal Sacrum Commercium: “Questo, signora, è il nostro chiostro”, indicando la creazione, il mondo, la natura».
Quando cominciarono a costruire i loro conventi presero per modello le umili case dei poveri e si ispirarono ai piccoli eremi di san Francesco, creando uno stile architettonico che per la sua semplicità venne chiamato «piccolo modello»; secondo le Costituzioni di Albacina (1528), le celle, strette e basse, dovevano essere di vimini e fango; i frati dormivano su nude tavole o paglia e spesso passavano molte ore in capanne eremitiche disseminate nei boschi per esercitarsi in una contemplazione più radicale.
Nelle «fabbriche» vedevano uno dei più pericolosi attentati contro la povertà e, quando in seguito furono costretti ad accettare una naturale evoluzione, si sforzarono sempre di non allontanarsi dalla radicalità di povertà evangelica indicata da Francesco d’Assisi.
I primi veri conventi si iniziarono a costruire solo dopo l’emanazione delle Costituzioni del 1535; nella costruzione i frati dovevano scrupolosamente attenersi al modello definito anche dalle Costituzioni successive, sia per la forma che per le misure. La primitiva forma era generalmente quadrata. Un lato era costituito dalla chiesa e gli altri tre lati dal convento, composto dal piano terra con i diversi locali di servizio, le così dette “officine”, rappresentate principalmente dal refettorio, cucina, dispensa, parlatoio, foresteria, sala della fraternità con camino, e dal piano superiore con celle e corridoi, che potevano essere tre o quattro, quando anche lungo le mura della chiesa vi era il portico. Le celle, le cui misure restano sostanzialmente inalterate nelle diverse redazioni delle antiche Costituzioni, erano arredate dell’essenziale, un tavolino (solo per i predicatori), una croce e un pagliericcio con tavole, spesso senza lenzuola. Oltre le celle il piano superiore comprendeva la stanza deposito dei panni, dove un frate era incaricato di tenere «mondi et rappezzati per bisogni di poveri frati» i panni della comunità, l’infermeria, la «libraria», ovvero la biblioteca, in cui erano conservati i libri necessari all’apostolato, che dovevano essere a disposizione di tutta la comunità. Il numero delle celle dipendeva dagli accordi stipulati con le autorità locali sulle proporzioni del convento in base alle esigenze delle popolazioni e alle necessità interne dell’Ordine, ma sempre ogni cosa doveva predicare umiltà, povertà e disprezzo del mondo.
E anche le chiese dovevano essere «piccole, e povere: ma divote, honeste, e mondissime; ne’ vogliano haverle grandi per potervi predicare perché (come diceva il Padre nostro) miglior essempio si dà a predicare nelle chiese altrui, che nelle nostre, massime con offendere la Santa povertade».
I cappuccini ebbero particolare cura che questi canoni venissero rispettati ovunque. Nel 1570 il vicario provinciale, p. Andrea da Laterza, nel congedarsi dai fondatori dei conventi di Galatina e Nardò, così si espresse: «Tutto bene, miei Signori, però mi permetta la Vostra pietà, che io gli lasci un ricordo: procurate che l’edifizj non offendano la povertà altissima del nostro santo istituto; perché offendendosi cotesta, si offenderebbe la pupilla degli occhi del nostro Serafico Padre»; e nel 1604, il vicario generale, p. Lorenzo da Brindisi, sconcertato dai conventi di Scorrano e Galatone, costruiti in modo contrario alla santa povertà, costrinse i frati a demolire il superfluo.
Ma come si svolgeva la vita dei frati nel convento?
La preghiera liturgica assorbiva e ritmava gran parte della loro giornata, dalla recita notturna del mattutino, alle lodi e litanie all’alba del nuovo giorno, alla messa conventuale e alla preghiera dell’Angelus, ed era alternata con periodi di studio, soprattutto per i frati chierici neo professi, di attività apostolica e di lavoro, per le varie necessità del convento. Il lavoro era considerato un dovere importante per adempiere a quanto prescritto da san Francesco al capitolo IV della Regola: «I Frati ai quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, lavorino fedelmente e devotamente, in modo che, bandito l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione, a cui tutte le altre cose temporali devono servire».
Molto praticato era il digiuno (tutti i venerdì, dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore, durante la Quaresima), anche se una cura particolare era riservata ai malati e ai deboli.
Nota caratteristica della giornata dei frati era il silenzio da praticarsi soprattutto in chiesa, in dormitorio, in refettorio (durante il pranzo si ascoltavano brani del Vangelo e a cena letture bibliche o la vita dei santi) e nel chiostro o in giardino.
«I primi “luoghi” cappuccini – scrive Mariano D’Alatri - sembravano disabitati e vuoti, ma erano ... pieni di frati silenziosi, oranti e laboriosi. Il silenzio conservava la purezza del cuore e lo spirito della riforma, contemplativo e apostolico. Quando si radunavano, in chiesa o in refettorio, era solo per parlare a Dio o per parlare di Dio e dell’osservanza della Regola. L’abito del silenzio li avvolgeva dappertutto. Cercavano di non far rumore nel camminare, nel ritirarsi in cella o nel lavorare, per non offendere il clima di devozione del luogo. Quando non si esercitavano attualmente nell’esercizio della preghiera, si occupavano negli studi o nel lavoro, che doveva essere a beneficio della fraternità e sempre temperato dall’orazione.
Ogni scelta di vita era calibrata sulle fonti francescane e sul Vangelo e le loro “accademie” di cultura si svolgevano soprattutto in refettorio nell’ascolto di spiritualissimi sermoni sulla Regola. Ma non erano così tesi alla perfezione che non sapessero anche raccontarsi candidissime barzellette o mostrare sempre un volto sorridente. Tutto era condiviso e regnava la perfetta vita comune. Le particolarità nel vitto, nel vestito, nell’orario erano aborrite. Insomma, una vita ordinaria, ma in modo straordinario».
3. L’insediamento a Campi Salentina:
il convento di S. Maria del Carmine dai carmelitani ai cappuccini
Se nel XVII secolo per il numero elevato dei frati molti dei conventi vennero ampliati e ne furono costruiti di nuovi sia nella Provincia d’Otranto ( Alessano 1627, Diso 1619, Ginosa 1610, Montescaglioso 1608 e Ruffano 1620) ) che in quella di Bari (Bisceglie 1606, Giovinazzo 1612, Rutigliano 1612, Ruvo 1607 e Triggiano 1614), il secolo successivo segnò la fine dell’espansione dell’Ordine cappuccino in entrambe le province religiose.
In realtà, in questo secolo tutti gli ordini religiosi furono coinvolti nel clima innovatore prodotto dalla politica dei nuovi sovrani che conquistarono il regno napoletano nel 1734, i Borbone. Essi affermarono tenacemente le prerogative della regia giurisdizione, sopraeminente ogni altra nelle province meridionali. La polemica sui religiosi si concentrava sulla loro diffusa presenza nel territorio del regno, sull’accumulo dei beni che con le donazioni dei fedeli essi avevano realizzato, e sul regime privilegiato di cui godevano, soprattutto su quel diritto di asilo nei conventi, come in tutti i luoghi sacri degli ecclesiastici, che aveva generato non pochi abusi e difficoltà nell’amministrazione della giustizia.
I cappuccini non rimasero estranei alle restrizioni circa la fondazione di nuovi conventi e nuove chiese, l’acquisizione di legati e privilegi; essi subirono l’influenza del clima anticlericale che si era diffuso: se nel secolo precedente erano stati sempre presenti tra il popolo, organizzando comitati e confraternite per combattere la carestia e l’usura, nel XVIII secolo vivevano in solitudine nei loro conventi distaccati dagli eventi politico – sociali e nella loro predicazione prevalse la retorica.
Essi, dunque, fecero appena in tempo a fondare nei primissimi anni di questo secolo il convento di Campi Salentina, dove si stabilirono nell’ex convento dei carmelitani.
Dedicato a S. Maria del Carmine, il convento era stato «fondato et eretto l’anno 1612 (...) da Don Giacomo Maci Prete secolare della suddetta Terra di Campie, con gli assegnamenti di ducati quattrocento di capitale, fondati in censi, botteghe e case, con obbligo di quattro messe il mese per l’anima del fondatore suddetto», con funzioni di ospitalità per i carmelitani in transito.
I frati carmelitani occuparono l’edificio fino al 1652, quando furono costretti a lasciarlo in seguito alla bolla del 15 ottobre di Innocenzo X, che diede il via alla cosiddetta “soppressione innocenziana dei conventini”: nella provincia di Puglia vennero soppressi ben 24 loro conventi, tra cui quello di Campi.
Il convento e la chiesa, con le relative rendite, nell’anno 1653, furono assegnati all’arciprete di Campi, Cristaldo Maci, con l’onere di versare una somma annua all’Ospedale dei Pellegrini.
L’arciprete ebbe cura della chiesa e del convento per più di venti anni, poi nel 1675, ormai vecchio e malato, decise di donare «tutta la sua robba» ai padri carmelitani perché tornassero a Campi e dispose che, se questi non avessero accettato, i suoi beni avrebbero dovuto essere amministrati dal principe di Squinzano e marchese di Campi, Gabriele Agostino Enriquez, e dal suo primogenito, con il diritto di decidere a quale Ordine religioso affidare la chiesa e il convento. Successivamente, nel 1680, l’arciprete revocò questa donazione, indicando come beneficiario dei suoi beni il Capitolo di Campi. I carmelitani e il principe ricorsero presso la Curia vescovile di Lecce e l’arciprete, nel giugno del 1681, revocò questa seconda donazione. Ne nacque una controversia tra il Capitolo, il principe e i carmelitani, che si concluse con un decreto di assoluzione nell’agosto dello stesso anno a favore del principe, che, alla morte di Cristaldo Maci, nel 1685, si «intruse» nell’amministrazione dell’eredità. I carmelitani, invece, dieci anni più tardi, «dopo un lungo litiggio (sic) fatto in Roma», il 3 febbraio 1695, non ritenendo sufficienti i mezzi per la sussistenza, rinunciarono definitivamente alla donazione del convento ormai in pessime condizioni.
Alla morte del principe Gabriele Agostino, nel 1697, l’amministrazione dell’eredità passò al figlio Giovanni, sposato con Cecilia Minutolo – Capece, il quale, il 23 luglio 1705, vi rinunciò, cedendola al Capitolo.
Per quanto riguardava la chiesa e il convento, invece, all’inizio di quello stesso anno, il principe aveva chiesto l’assenso del Capitolo, che aveva lo jus sulla chiesa, alla fondazione, «per sua mera devozione», di un convento di cappuccini in quello ormai «diruto» della Madonna del Carmine. L’assenso fu concesso il 4 gennaio con alcune clausole che fra Nicola da Campi, cappuccino «presidente per il nuovo Monastero che si riceve in Campi», promise e si obbligò ad accettare.
Il 22 gennaio 1706 nel Capitolo provinciale celebrato a Taranto anche i cappuccini davano al principe la loro approvazione, confermata poi anche dal padre generale.
Il febbraio 1706 il vescovo di Lecce, Fabrizio Pignatelli, vista anche l’approvazione dei padri riformati della Terra di Salice, dei padri dell’Ordine di S. Pietro d’Alcantara di Squinzano e di quelli del Collegio delle Scuole Pie di Campi, emanava il decreto con cui concedeva al padre Nicola da Campi di erigere e fondare nel convento soppresso un nuovo convento dell’Ordine cappuccino.
Nei mesi di giugno – luglio il principe otteneva anche il beneplacito della Sacra Congregazione dei vescovi e regolari per ridurre «a perfettione un’opera tanto pia e tanto profittevole» che avrebbe accresciuto «la sua divotione e del popolo (di Campi) verso di detto habito».
Dopo tanti anni di abbandono il convento si trovava in pessime condizioni e i cappuccini si sistemarono alla men peggio «in alcuni abitacoli»; poi, con le offerte dello stesso marchese e con quelle dei cittadini, lo ristrutturarono e ampliarono.
Chiesa dei cappuccini, architrave porta d'ingresso, iscrizione
Nel 1722 era stato completato sia il restauro della chiesa, come ricordato anche dalla iscrizione presente sull’architrave della porta di ingresso della stessa: «Ave Virgo Flos Carmeli Stella Maris Porta Caeli. A. D. 1722», che quello del convento che era «già perfetto et habitato dalla famiglia regolare» e restava solo da fare la «circonvallazione de muri». Una mancanza questa che certamente creava disagi ai religiosi in quanto permetteva l’ingresso ad alcune donne, che, avendo contribuito con le loro offerte alla ristrutturazione dell’edificio, ritenevano di averne diritto.
Conclusione capitolare per l’assenso alla fondazione del convento dei cappuccini di Campi, 1705 (ACCaS), 1r
I superiori provinciali dei frati, per il tramite del procuratore generale, fr. Pier Maria da Lucca, nel mese di febbraio di quell’anno si rivolsero alla Sacra Congregazione dei vescovi e regolari chiedendo «di dichiarare detto convento, per autorità apostolica, clausura, e proibire che non possa più entrarvi alcuna donna senza espressa licenza delle eminenze vostre»; la Sacra Congregazione il 22 maggio scriveva al vescovo di Lecce chiedendo un suo intervento per «avvalorare colla sua autorità le giuste ripugnanze che hanno quei religiosi di permetterglielo e con dichiarare esser il convento clausura, né potervene entrare alcuna senza precedente licenza d’essa Sacra Congregazione, sotto le pene inflitte a chi ha violato la clausura regolare».
Conclusione capitolare per l’assenso alla fondazione del convento dei cappuccini di Campi, 1705 (ACCaS) 2r, particolare
Qualche anno più tardi, nell’ottobre del 1726 partiva da Campi alla volta di Roma un’altra richiesta, ma questa volta erano il sindaco e l’Università che si rivolgevano al papa, Benedetto XIII, perché venisse riconosciuta ai cappuccini di Campi la facoltà di ascoltare le confessioni dei secolari:
«Beatissimo Padre.
Il sindaco et università della terra di Campi, diocesi di Lecce, umilmente espone alla Santità Vostra come, ritrovandosi in detta terra pochi confessori in due sole chiese, i quali non sono sufficienti per sodisfare alla pia divozione di tutto il popolo assai numeroso, ed essendovi un convento e chiesa de Padri Cappuccini, che potrebero [sic] dare magior [sic] aiuto e sodisfazione a tutto il popolo, ricorre pertanto alla somma clemenza della Santità Vostra acciò voglia degnarsi dispensare a detti Padri Cappuccini della suddetta terra la confessione ad arbitrio ed elezione dell’Ordinario. Che etc.».Il sacramento della confessione nella chiesa deicappuccini, infatti, fino a quell’anno era statoamministrato dal clero secolare, così come stabilito in una clausola inserita dal Capitolo al momento dell’assenso concesso a padre Nicola di Campi per la fondazione del convento:
«E volendo detto Reverendo Capitolo mettere confessionario in detta Chiesa dei Reverendi Padri, come l’ha tenuto ed attualmente lo tiene, non possa esserli impedito, a finché ogni confessore di esso Clero potesse esercitare in detto confessionario il proprio officio».
Le costituzioni del 1536 prescrivevno all’art. 90 «che nisciun frate confessi seculari, senza licentia del capitulo o del padre vicario generale (…) e questo per evitare ogni pericolo e distrazione di mente, acciò restretti e ricolti in Cristo, possino senza impedimento più securamente correre a la celeste patria»; solo nella prima metà del Settecento cominciò progressivamente a cadere questa barriera;
Chiesa dei Cappuccini, porta di ingresso.
attualmente i cappuccini sono ricercati proprio per l'apostolato delle confessioni.
Non si hanno molte altre notizie circa la condizione in cui vennero a trovarsi i cappuccini a Campi in questo periodo. La comunità ospitata nel convento, in cui era sistemato un «lanifizio» per cardare la lana necessaria alla confezione dei sai per i frati della Provincia, era certamente sostenuta dalle offerte dei fedeli. Non pochi campioti, inoltre, nei loro testamenti disponevano di lasciti a favore dei frati in cambio della celebrazione di messe per la salvezza della loro anima, così come era consuetudine in quei tempi.
Ma anche l’Università contribuiva al loro sostentamentoprovvedendo a prestare loro, gratuitamente, pure assistenza medica.
Nel 1742, nei mesi di aprile – giugno, Campi fu afflitta da una terribile pestilenza ed è facile immaginare, non avendo trovato a tutt’oggi documentazione alcuna, che i frati abbiano prestato la loro opera durante l’assistenza agli infermi, così come previsto d’altronde da una disposizione delle Costituzioni del 1536 e così come fecero i più famosi cappuccini di manzoniana memoria.
Così come si può solo dedurre dalla data indicata sul cartiglio posto tra il secondo arco trasversale e l’intradosso della volta della navata principale, che nel 1763 si celebrò il completamento di ulteriori lavori eseguiti all’interno della chiesa.
Chiesa dei cappuccini, arco trionfale
Estratto da: <<I cappuccini a Campi Salentina - Tre secoli di storia, fede e cultura>>
A cura di Rosa Anna Savoia - Francesco Monticchio. Edizioni del Grifo |